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G. Battista Cattaneo: L’eredità di affetti

Il padre Giovan Battista Cattaneo fu il primo maestro di vita e d’arte per Dario. Il primo profumo della pittura ad olio e della trementina lo percepisce all’interno della sua casa vedendo il padre Battista dipingere e decorare.
In una lettera diciottenne, ringrazia i genitori per avergli concesso di fare il suo primo viaggio con i fratelli nonostante avrebbe potuto essere più utile “a magazzino” aiutando il papà. Essendo l’ultimo di sette figli vive con grande responsabilità l’abbandonare la famiglia il 18 settembre 1982 nel giorno del suo matrimonio, ma vive con ancora più sofferenza quando “la morte entra a far parte per la prima volta della sua vita” con la scomparsa del padre il 22 gennaio 1983 e la sua mamma si trova a vivere da sola.
Questa assenza fa però rumore e sprigiona un’energia talmente profonda che spinge Dario e i suoi fratelli ad un progetto importante, costruire la memoria artistica del padre e al tempo stesso a fare un ultimo regalo a sua madre.

Realizza così insieme ai suoi fratelli varie esposizioni postume e due cataloghi:

1996 “Mostra retrospettiva dell’artista G.Battista Cattaneo” nel Chiostro di San Giovanni a Brescia con voce di Clara Borrani 24 giugno 1996

1998 “G. Battista Cattaneo Monografia Aab” 17 ottobre 1998 commento di Roberto Ferrari

2002 G. Battista Cattaneo “Luci ed emozioni” 15-30 giugno 2002 presso La Peschiera a Pompiano (Bs) con presentazione di Gian Franco Tortella e di Dario Cattaneo

2003 – Palazzo della Loggia, Brescia | G. Battista Cattaneo “L’eterno nel quotidiano” 11-26 aprile 2003 presentazione di Paolo Corsini, Mauro Corradini e Dario Cattaneo

2003/ 2004 – Villa Glisenti, Villa Carcina |G. Battista Cattaneo “L’emozione e la regola” 13 dicembre 2003 – 6 gennaio 2004 presentazione di Alberto Cavalli, Evaristo Bodini, Roberto Ferrari, Mauro Corradini e Dario Cattaneo

2006 – Sala mostre centro sociale, Ghedi | G. Battista Cattaneo “Il ‘900 nella pittura di G. Battista Cattaneo” retrospettiva nel centenario della nascita, presentazione di Anna Guarneri, Mauro Corradini, Milena Moneta e Dario Cattaneo
https://youtu.be/ukg6d0CC_9U

G. BATTISTA CATTANEO: PITTORE E DECORATORE

G. Battista Cattaneo (1906-1983) fu pittore di vena crepuscolare, all’ombra di San Giovanni e della Pallata, in una cerchia popolare vissuta sull’uscio di casa, affacciata alle altane e alle ringhiere del Carmine, di Corso Mameli e ai lavatoi di Via Paitone, con cuore semplice e tollerante.
Dovette pensare a tirar su sette figli facendo l’imbianchino, il decoratore, il restauratore, sicchè si tenne un po’ fuori dalla mischia, specie nel secondo dopoguerra che vide lo scontro tra astratti e figurativi. Al cavalletto ci stava per intimo diletto. La pittura di Cattaneo appare già definita nell’anteguerra, di respiro evanescente e asciutto sotto un velo di malinconia pensosa. Frequenta la scuola Moretto dal ’23 al 1928 e poi ancora affina, presso lo studio di Giuseppe Mozzoni, la tecnica dell’ornato e della decorazione. Dal 1929 inizia a frequentare la Scuola di nudo di San Barnaba che Virgilio Vecchia costruì sulla linea del novecentismo.
Suoi compagni ed amici sono: Enrico Ragni, Fausto Bertoli, Achille Canevari, Gino Guarnieri, Alessandro Pianeti, Vico Cominelli, Giuseppe Simoni, Oscar di Prata, Martino Dolci, i fratelli Ghelfi, Vittorio Botticini, Ermete Lancini, Mario Pescatori, il giovane Romeo Bellucci, ecc.
Legato alla cultura di Novecento è forse attratto dalle nuove energie che giungono per vie diverse in città, prima fra tutte la rimpianta raccolta Ferodi caratterizzata dalla presenza di due maestri del “tono interiore”: Carrà e Morandi.
Anche sul piano umano, la figura di Cattaneo va sottolineata per la fede che lo caratterizza; profondamente legato ai valori del cattolicesimo, è necessariamente incline ad accogliere riflessioni che ne recuperino la spiritualità che i tempi moderni vengono disperdendo.
L’istanza espressiva e quella spirituale favoriscono in Cattaneo scelte stilistiche racchiudibili nelle forme “dimesse”.
Nel‘44 Ermete Lancini, l’amico pittore-intellettuale, presentandolo nella sua prima personale, parla di “raccolta compostezza espressiva” e di “silenzio delle cose”.
Più che al novecentismo incoraggiato dal regime, Cattaneo si collega a certa tradizione postimpressionista di costruzione col colore-luce, dopo essere partito, in certe stradine, da un tono che evoca Rosai o Carrà nelle loro declinazioni più assorte e trasognate.
La vita, a giudizio di G. Battista Cattaneo, mostra il suo significato soprattutto all’interno di orizzonti socialmente angusti. La sua pittura si trasforma nella accettazione dell’esistenza di tutti i giorni illuminati da Dio, dalla cultura, dal sentimento, dalla solidarietà e dalla compassione come produttori di senso.
Cattaneo osserva la città dalla propria finestra di Via Paitone, esplora con accordi cromatici ribassati il volto mite delle figlie bambine, o dei figli adolescenti in un’assorta e lieta pensosità, descrive oggetti quotidiani su sfondo di case massicce e soprattutto racconta una passione irrefrenabile per il libro inteso come un totem. Egli lo rappresenta in una chiave silenziosamente sacrale, cogliendolo sui banchi dei figli studiosi e collocandolo, in modo tenuemente ossessivo, in molti dipinti come punto cartaceo dal quale è possibile configurare la repubblica dei giusti. Così G. Battista Cattaneo ci trasmette il suo modo di sentire la vita: un insieme che intenerisce e convince della autenticità d’una vocazione servita con devozione e purezza di sentimenti, sempre alle prese con le necessità della vita e delle responsabilità familiari.

Cenni critici

Maurizio Bernardelli Curuz 2002, G. Battista Cattaneo, l’eterno nel quotidiano.

Il piccolo mondo della minuta borghesia artigianale e operaia che transitò drammaticamente tra le due guerre, il suo sfondo urbano ancora dominato da biciclette, oratori, tram, gavette, poca carne, offrì a G. Battista Cattaneo (1906-1983) una visione della realtà dominata dai valori di una povertà operosa, contemperata da un incrollabile universo valoriale – la famiglia, lo studio, una religione che permea le cose, con modalità morettesche, fino ad offrirle in lettura come prove di una religiosità quotidiana -. L’artista mosse da “Novecento”: gli esordi sono contrassegnati da una sottolineata attenzione all’elemento plastico e ai volumi, in direzione di una pittura solida, non rifinita dalla luce, con stesura a campitura del disegno, una pittura indenne dai postumi della febbre virulenta e sensuosa dell’impressionismo e della celebrazione dell’istante che passa, e di tutta quella fremente, pullulante attività dei fotoni impazziti, di biancori abbacinanti su scampoli di materia candida importati da Parigi per il grande piacere di avvocati, ingegneri, commercianti all’ingrosso, baroni, conti e duchi.
Solido, concreto, come vuole la tradizione tracciata da Moretto – e prima di lui da Foppa -, dal grande Ceruti e da altri compagni di strada che posero al centro la stereotipia del carattere bresciano, poco incline alla celebrazione fiorita, attento alle radici degli oggetti, molto spesso bagnate da un pianto sommesso, compassionevole nei confronti di chi regge i fasci spinosi della sofferenza.
Cattaneo, cercando l’eternità nel quotidiano, rifiuta anche, per temperamento e formazione, le istanze esplosive dell’avanguardia e, pur accettando, della modernità, la pittura di sintesi – che sulla linea Cézanne-Van Gogh e Matisse semplifica e, semplificando, non accetta di avallare soluzioni illusionistiche nei dipinti – non può mai condividere le istanze del più radicale rinnovamento modernista.
Avverte, comunque, il nostro pittore, ed esplicita – rispetto alle pressanti richieste di rinnovamento – un senso di colpa nei confronti della necessità condivisa di una celebrazione della società tecnologica. Disagio psicologico che Cattaneo evidenzia in una natura morta, nella quale, accanto ad oggetti domestici, inserisce un libro d’arte squadernato su riproduzioni futuristiche, segno questo che egli – pur avvertendo le sollecitazioni ad assumere un linguaggio rinnovato – risolve la domanda con un confronto distanziato, quasi fosse l’esplicitazione di un desiderio a cui non riesce e non può dar corso.
Agli esordi, dicevamo, Cattaneo promuove uno stretto confronto con “Novecento”, riletto in una chiave che, pur assumendo i riferimenti della corrente a una statuaria classica e comunque ad un orizzonte di ispirazione precinquecentesca, elide ogni percorso monumentale giacchè da noi, nel bresciano, troppo forte era la matrice appunto morettesca – quando non apertamente romaniniana, nel descrivere la crudezza del reale -, orientata al canto degli oggetti in una religiosità meridiana, fatta appunto di epifanie divine nel contesto casalingo, di un Dio che, nei primi decenni del novecento, scendeva frequentemente dalle immaginette ai tinelli, come un fratello maggiore in grado di dirigere amorevolmente la famiglia al compimento del dovere, e di sostenerne le sorti.
Non sfugge questo dato, anche quando il pittore, decidendo di ridurre progressivamente le suggestioni di “Novecento”, e passando prima attraverso le quinte urbane di Rosai – ancora schiette di intonaci grossolani e di colori violenti, ma ribassati nella gamma cromatica, come vinaccia delle osterie, tra case geometriche premasacciasche sulle quali batte il vento dell’essenziale -, poi attraverso una pennellata destrutturate, di materia appassita, in un processo che rinvia alla visione di De Pisis, evita qualsiasi concessione a un pensiero vuoto, al nichilismo, all’esistenzialismo, al pensiero negativo. Il suo orizzonte resta quello dominato da un intenso – pascoliano vorremmo aggiungere – sentimento nei confronti della vita di tutti i giorni, venato semmai dalle tinte di un crepuscolarismo contemplativo, privo del senso angosciante del nulla, ma portatore, piuttosto, di virgulti di senso. La vita, a giudizio di Cattaneo, mostra il suo significato soprattutto all’interno di orizzonti socialmente angusti.
Sicchè la sua pittura si trasforma nella accettazione – ed è accettazione canterina – dell’esistenza di tutti i giorni illuminati da Dio, dalla cultura, dal sentimento, dalla solidarietà come produttori di senso. Racconta, ad esempio, la tiepida atmosfera in un salone del barbiere – nel quale sono appesi cappotti odorosi di brillantina e del freddo acuminato e struggente dell’inverno – con la stessa partecipazione alle sorti della vita che avrebbe riservato a un’”Ultima Cena” (e la sua produzione di soggetti religiosi, qualitativamente meno intensa rispetto al resto del percorso, è, d’altro canto, importazione di modelli umili in una cornice di celebrazione spirituale).
Cattaneo osserva la città dalla propria finestra del Carmine, esplora con accordi cromatici ribassati il volto mite delle figlie bambine, analizza se stesso – numerosi sono gli autoritratti, nei quali manifesta lo stupore rispetto alla propria immagine e ripetutamente dà un’idea di chiedere chi sia e che sia, in fondo , l’uomo, fino ad osservarsi in un registro stilistico espressionista, giallo e malato, privo di capelli, come un piccolo Van Gogh di provincia -, racconta la moglie in giardino, descrive oggetti quotidiani su sfondo di case massicce, riferisce di stanze piccolo-borghesi profumate di canfora e soprattutto racconta una passione irrefrenabile per il libro inteso come totem. Egli lo rappresenta in una chiave silenziosamente sacrale, cogliendolo sui banchi dei bambini studiosi e collocandolo in modo tenuemente ossessivo in molti dipinti come punto cartaceo dal quale è possibile configurare la repubblica dei giusti.

 

Fausto Lorenzi, 2003, G. BATTISTA CATTANEO: MITE E TENACE FEDELTA’ A UN PICCOLO ORDINE DOMESTICO
Tutte le testimonianze fanno emergere la mitezza e la malinconia di G. Battista Cattaneo. Pietro Feroldi già nel 1938 sottolineava in Cattaneo la capacità di modulare il lirismo nei toni grigi, “raggiungendo massima consistenza e rara compostezza”.
Negli anni Trenta, risultava subito come stesse lontano dalla deriva totalrealista del Novecento di regime, scegliendo piuttosto uno “stile della solitudine”, di pittura messa sotto una cappa attonita, d’arcadia e incantamento primitiveggiante. Così, la sua non fu certo ribellione, ma lieve trasgressione “ai margini”, in introversa tensione. Un tono in sordina, d’un fondo pittorico screpolato e raschiato da una vita che non regalava niente.
Giovan Battista Cattaneo fu pittore in zona San Giovanni e dovette pensare a tirar su sette figli, facendo l’imbianchino, il decoratore, il restauratore, sicché si tenne un po’ fuori dalla mischia, specie nel secondo dopoguerra che vide lo scontro tra astratti e figurativi. Finì perciò col dichiararsi “pittore non professionista”, anche se erano proprio i mestieri della pittura a farlo vivere. Ma al cavalletto, ci stava per intimo diletto.
In realtà nel clima delle fiere contrapposizioni dei primi Anni Cinquanta frequentò sia i tradizionalisti attorno al Bruttanome di Virgilio Vecchia (nell’anteguerra, era stato alla sua scuola di figura in S. Barnaba) sia gli innovatori che gravitavano in corso Mameli (Lancini, Botticini, i tre fratelli Ghelfi, Ragni) stimolati dai vari Vedova, Birolli, Corpora, Morlotti che approdavano in casa del collezionista Cavellini. Nel 1946 Birolli -, che ebbe grande influenza in quegli anni a Brescia frequentando lo stesso collezionista, il più convinto sostenitore del Gruppo degli Otto animato dal grande critico Lionello Venturi -, annotò che la generazione uscita dalla guerra s’era trovata a fare i conti, improvvisa e drammatica, con la crisi di un’intera civiltà figurativa.
Ma la pittura di G.B. Cattaneo appare già definita nell’anteguerra, di respiro evanescente e asciutto sotto un velo di malinconia pensosa. Un clima neoromantico, anche antigrazioso, di vita che si sottrae alla chiusura in un regime d’ordine assoluto, che esplora ai confini della città il brusio di un’umanità in attesa di vivere, estraneo alla stentorea, tronfia monumentalità dell’ufficialità fascista.

 

Ermete Lancini, che fu il teorico dell’aggiornamento alle forme picassiane e astratto-concrete, nel 1944 scrivendo di Cattaneo invitava ad “ascoltare due volte” il silenzio delle cose in quel “grigio ferrigno e nostalgico” che legava in sé quella pittura.
Una pacata accettazione della fatica di vivere, sotto marroni sdruciti e azzurrini aciduli impregnati della dimessità quotidiana, in declinazioni antieroiche, di emozioni semplici e stupite, di sensibilità che lo fece avvicinare genericamente a certo primitivismo ch’era nell’aria nei Trenta – tra Semeghini, i Sei di Torino ed i chiaristi – che saggiava sagome più sciolte, di grazia acerba, nei ritratti, e ingenua visività evocativa nella polvere di luce secca, più che terragna, dei paesaggi.
Paesaggi quasi sempre deserti, fatti di blocchi di case, scalinate e fughe di stradine nei campi, porticcioli lacustri scorciati, o segnati da figurine minuscole, compitati sempre un po’ con diligenza scolastica, nell’impaginazione (lontani dunque anch’essi, fin da subito, dalle dominanti volumetrie implacabili e visionarie di Novecento), ma riscattati in quell’aura sorda e secca, dove par di poter scuotere la polvere dalle scarpe de viandante. 
Più che al novecentismo incoraggiato dal regime, che già l’antesignano locale Vecchia stemperava in toni intimisti, G. B. Cattaneo si collegava a certa tradizione postimpressionista di costruzione col colore-luce, dopo essere partito, in certe stradine, da un tono che evocava Rosai o Carrà nelle loro declinazioni più assorte e trasognate. Belle certe periferie dove cercava proprio uno spazio pittorico emozionato (“Casello ferroviario a Ponte Crotte”, “Mella a Pontegatello”) che aprisse alla trascrizione lirica della realtà, alla contemplazione malinconica. 
Un’intensificazione lirica come raccoglimento e densità di un attimo, che privilegia il brivido freddo della neve (i risultati migliori, di tensione sottilmente ansiosa e stupefatta) e che nelle figure sembra esprimere un atteggiamento di perenne inadeguatezza, di piccolezza di fronte al mondo, che per G. B. Cattaneo è fondamento d’un’intima, fidente religiosità.
Questo atteggiamento scabro e laconico darà la carica di dolore attonito della sua iconografia religiosa, partecipe del brusìo stupefatto d’un’umanità in attesa di vivere (il più bel ritratto, in questo senso è, nel dolce abbandono di “Marisa che dorme”, 1944). Un’arte scarna e disadorna, sempre più smorzata in valori intimi e introversi, in un clima davvero sommesso, di vita che dà barlumi (“Mariarosa con Luciana”, 1951; “La dubbiosa” 1951 in una sorta di espressionismo castigato; l’assorto “Beppe che legge” 1957; “Rita” abbandonata sulla sedia, 1965, in un impaccio un po’ legnoso, d’attesa mentre la vita passa accanto).
Ai suoi familiari, e ai suoi popolani, il pittore offre la protezione gelosa d’una composta, dimessa dignità. E c’è tutta la serie degli autoritratti, costante nei decenni, talora rimarcati e sottilmente febbrili (il bel ”Autoritratto” 1938 di mite ostinazione; “In verde” 1943; “In camicia”, alle soglie degli anni ‘50; “Con cuffia” 1954; “In gilet” 1955; “Con bretelle” anni ’60…), sempre cinti di dignità dolente.
Prima di frequentare, dal 1931 al 1940, la scuola di nudo in S. Barnaba, G. B. Cattaneo aveva seguito la scuola Moretto (1923-1928), d’infarinatura di mestiere, specie il disegno, e lo studio di Giuseppe Mozzoni (1929): autore, quest’ultimo, della cosiddetta “accademia dei ponteggi”, tra gli ultimi frescanti, ma con una sua vena gnomica, di civile fraternità, didascalica, descrittiva ed encomiastica, anche epigono del Risorgimento con le sue corali e declamatorie “Storie bresciane”; ma era lontano dall’esecuzione “decisa e virile” del muralismo voluta dal fascismo, capace piuttosto di offrire come in un controcanto echi, riverberi e rifrazioni di un’esistenza solida, domestica e quotidiana, così da accorciare la distanza tra la pittura di decorazione, che sottostava sempre come appiglio di racconto secondo una struttura chiara e netta, e la pittura di cavalletto, al limite di un parlato più colloquiale dove la verità dei dettagli si fa lezione di osservazione minuta, di una musica e un colore più sommessi.
Cattaneo raccolse quell’attitudine classico-rustica (si veda “Figure nella strada”, 1942, tra i più vicini a tipiche composizioni novecentiste, eppure volto a una cronaca più dimessa), dove non mancavano i ristagni prosastici, le inerzie del genere, ma dove si componeva nel lungo arco dell’esistenza un poemetto domestico e cronachistico, nella difesa dei sentimenti immediati, attraverso, se non proprio lo schiarimento della tavolozza, certo l’ottundimento, quasi in funzione antiplastica, fino all’attenuazione della volumetria con effetti di bidimensionalità.
Con una sua grazia sommessa, leggera e trepidante, talora in un dialetto teneramente scorbutico, capace di filtrare gli stati d’animo in una luce pigmentata di screzi e vibrazioni, depositata in un’attenzione prolungata, ma come smorzata, crepuscolare nel “grigio” bresciano e lombardo.
La fusione in un “cantabile a bassa voce” dei paesaggi, in una coerenza estranea alle “rivoluzioni” del ‘900, sarebbe stata custodita d G. B. Cattaneo come difesa di un patrimonio di sentimenti e di salda e cordiale civiltà di affetti e di relazioni di borgo, di lezioni di mestiere come lezioni di vita, da conservare nel gusto del vero nel grembo della natura e del focolare domestico. Il colore come umore e filo conduttore, col senso asciutto e “povero” dell’affresco, ordinato in una struttura ritmica o metrica, cioè in un’architettura che segnasse lo scorrere del tempo. Talora quell’architettura fu una sorta di angolo di città o di paese squadrato e squadrettato. Non mancò poi, indispensabile tributo al clima stilistico del secondo dopoguerra, l’essenziale modulazione plastica postcubista, ma il tipico segno forte che scandiva e accentuava le giunture in lui diventava un vago riferimento, piuttosto un esile, macilento e tremolante traliccio, per cercare di ancorare le forme a una sorta di candida e stupita innocenza, in un’espressività secca e spoglia, come rimuginata ai margini, in un fondo di più sorda ritrosia, in un tono sottile e sommesso di poesia crepuscolare, di silenziosa e rattenuta malinconia.
Era una griglia per scandagliare la misura di solitudine tra le figure e lo spazio, inteso come spazio dell’esistenza quotidiana.
L’ingenuità, certo candore in chiave lirica non era però mai naif, da parte di un pittore che credeva nel valore dei sentimenti, che aveva la preoccupazione costante dei più gelosi affetti personali.
Quando ha fatto ritratti, ci ha raccontato soprattutto volti di persone care alla sua cerchia d’affetti e volti di gente del popolo, con partecipazione emozionata, anche a scandire gli eventi d’una famiglia; e quando si è volto a pagine di paesaggio, la geografia era soprattutto quella dei tetti di via Paitone e del Carmine, e poi delle periferie (Ponte Crotte, il Mella, Mompiano) e delle brevi uscite fuori porta (Sale Marasino, Marone, Siviano, Padergnone, Irma, Dusano…). Una geografia di persone, cose e luoghi che scandiva – lo annotava benissimo Guido Stella già trent’anni fa – il diario della “crescita quotidiana di un amore e di una fedeltà alla propria famiglia, di questa famiglia umana, sacra anch’essa nell’ispirazione e nel cuore de pittore”.
Forse cedeva troppo al sentimentalismo, ma era nutrito da affetti immediati, anche nel richiamo alla figuratività semplice, ruvida e magra che si reggeva su un’ingenua stupefazione popolaresca (quasi da ex voto, oltre che da illustrazione d’infanzia), ma su un controcanto di abile stilizzazione e intensità sentimentale. Per un paio di decenni, dal 1952 al 1972, non sarebbe più nemmeno comparso in mostre personali, impegnato a fare il restauratore.
Nel suo migliore autoritratto, del 1944, sta sdutto e disossato in una palandrana sdrucita, ma non sciolto, un po’ dritto e “impalato” lì davanti a noi in primo piano, una mano poggiata su un tavolo, l’altra in tasca, con una sua dimessa, impacciata sovranità, entro il breve perimetro della stanza. E’ come se ci rivelasse la doppia inclinazione del suo animo pittorico, che vuol conoscere e rinchiudersi: così nei paesaggi, nei ritratti e nelle nature morte trascorre un modo quieto e saldo d’approccio al reale, con quella vena costante di malinconia, che stempera anche sigle formali diverse con cui pur viene in contatto, ma che lascia intatto il senso d’una quieta meditazione sulle proprie più intime, ritrose inclinazioni.
I suoi scorci “aerei” di via Paitone, i suoi paesaggi, sono visti sempre in un “fermo” d’attesa o di torpore, guardati e trascritti in un amore spoglio di fronzoli, di seduzioni e clamori, fatti di luci lente, nascondimenti e tremori sparsi su lunghi orizzonti, opifici ai confini della campagna, terreni brulli, soprattutto nevicate. Vale probabilmente anche quel modo di mescolare i colori a olio in leggere gamme tonali, quando non monocrome, sul fondo ancora umido, a rievocare l’affresco: una luce di ricordo, un po’ stinta e prosciugata, ma dipinta con materia vera, che rende tangibile, concreto di sostanza emotiva, di scabra asperità, il mondo di Cattaneo. Un’interpretazione di quieta religiosità – di accettazione della Provvidenza – della vita quotidiana: l’umanità retta e semplice ricercata nei familiari intorno, nelle campagne e nei borghi, come un tornare ai fatti e al costume dell’anteguerra rivissuti come piccoli miti, in una pacata, composta poesia, pur facendovi circolare un tremolio vago d’atmosfera. Eppure, fu una difesa ma anche una sconfitta, questa chiusura in un ordine artigianale e piccolo borghese, un conformismo d’affabilità pudica quasi vernacolare – pur con tanto composto ritegno – quando magari sarebbe servito uno scatto di impegno morale e civile. Era come se cercasse in certo tono rustico, persino strapaesano, un conforto dialettale – leggi: di lingua materna – a certo disagio.
Ma in G. Battista Cattaneo, sempre più assorto in se stesso, bisogna sondare proprio le note dimesse, con esiti talora di valida concentrazione lirica, talora invece di balbettìo flebile, più prossimo a un odore di naiveté, tra languida e scontrosa, con qualcosa di lagnoso: la tenerezza per i rosa, i grigi, i tenui celesti, il fondo terroso dell’esistenza; il sapore polveroso, paziente della luce.
Interrogazioni intime: i ritratti, le nature morte, i paesaggi, dichiarando tutti una semplificata ossatura dell’immagine, confidano un sentimento del tempo scarnito e silente, quasi una confessione di anacronismo, in chi camminava su un fondo duro ma solido di pazienza artigianale. E c’è una religiosità accorata nelle Pietà e nei Crocifissi di Cattaneo, umili e derelitti, o in certe figure popolane del dolore, d’umiliati e offesi. Un compatimento d’uomini soli e smarriti, ma anche un’umanità retta e semplice, fidente nelle Beatitudini, in attesa d’un riscatto, in una materia che pare d’affresco un po’ roso dal verde del salnitro. Alla fine, nell’arte sacra pareva voler riattingere a un candore fanciullesco, nell’animo sgombro d’un credente intimamente unito in preghiera col suo popolo. Anche qui, il custode d’un’umanità pacifica sospinta ai margini, offrendo la protezione di una dignità corale di tradizioni, di valori familiari, di fede.
In fondo anche le nature morte confermano questa costante interrogazione del muto linguaggio degli uomini, dei luoghi e delle cose, in luci spesso acidule o polverose. Oggetti prosastici e concreti quasi sempre lontani da ogni seduzione decorativa, anche qui con tutti i riferimenti compositivi delle varie epoche novecentesche, mediati spesso dai libri e dalle riviste, ma ricondotti a quella ossatura introversa, spogli di sensualità, chiamati a dare una misura, un senso, al piccolo ordine della vita e al trascorrere faticoso eppur mestamente grato dei giorni.

 

Mauro Corradini, 2003, Le scelte stilistiche di Battista Cattaneo tra intimismo lirico e tensione spirituale.
Tutta la vasta produzione del pittore bresciano sembra muoversi sulle coordinate della prima produzione artistica, a partire dai paesaggi della fine del decennio trenta, fino a quelli degli anni sessanta-settanta, quando l’artista si rivela più libero dai riferimenti, e tutta la sua produzione si inserisce in quella tradizione narrativa, che non ha bisogno dell’impressione, del facile effetto: rimane una pittura solida, costruita sull’intensità del sentimento. Le coordinate espressioniste quelle stesse che sostengono le prove migliori del primo periodo (si pensi al ritratto i Marisa che dorme, 1944) si esaltano in alcune “nature morte” (specialmente negli anni quaranta), per progressivamente stemperarsi in una narratività senza contrasti. Rimane in Cattaneo la solidità come misura, la volumetria che rinvia sia alla lezione cézanniana – e i riferimenti e le citazioni sono numerosi – sia a quella novecentista. L’immagine del pittore viene investita dal soffio del sentimento, dal bisogno di emozione, quella stessa che fa capolino già nelle prime, straordinarie opere della fine del decennio trenta (La valle di Ledro, 1939, per esempio). Ormai il dibattito che attraversa l’arte non solo italiana e giunge in città con l’emergere di una nuova generazione che si affaccia all’arte non lo interessa più. Forse accoglie alcune formule inseribili in quel vasto contesto che si definisce (forse erroneamente) neo-figurativo: si tratta di aggiustamenti che, a ben osservare, trovano nelle lontane matrici del realismo italiano di stampo ottocentesco la spinta originaria.
Per chi, come Cattaneo, la pittura ha costituito la “libertà” dal peso gravoso dei ponteggi e dalle tensioni del restauro, diviene difficile accettare le nuove tendenze, comprendere le nuove scelte linguistiche: meglio ritirarsi, rivendicando la sua autonomia (dunque: la sua libertà), e praticare quella difficile sintesi di realtà ed emozione, quell’intercapedine tra percezione e sentimento, che costituisce l’esito più felice.

 

Dal Dizionario dei Pittori Bresciani, di Riccardo Lonati, Giorgio Zanolli Editore
CATTANEO GIOVAN BATTISTA.
Comezzano (BS), 10 Giugno 1906 – Brescia, 22 Gennaio 1983
Rimasto orfano in tenerissima età, cresce con la sorella a Brescia dove frequenta la scuola Moretto (1923-1928), lo studio di Giuseppe Mozzoni (1929) e, dal 1929 al 1942, la scuola del Sindacato delle belle arti in San Barnaba dove ha come maestri ed amici Virgilio Vecchia e Angelo Righetti.
Nel dopo guerra è tra i soci fondatori dell’A.A.B.
Lungo apprendistato dunque anche se il carattere della sua pittura è già definito nell’anteguerra.
Dovette pensare a crescere sette figli facendo l’imbianchino, il decoratore ed il restauratore.
Finì col dichiararsi “pittore non professionista”, anche se erano proprio i mestieri della pittura a farlo vivere. Ma al cavalletto ci stava per intimo diletto.
Nutrita la serie di partecipazioni a mostre, la prima nel ’34 alla Galleria Dante Bravo in Via Paganora e poi alle manifestazioni Sindacali del ’34, ’36, ’38, ’40 e ’42. Nel 1944 la sua prima personale.
Suoi affreschi sono sparsi un po’ ovunque nella provincia di Brescia (Torbole, Vobarno, Vestone, ecc.).
Se Battista Cattaneo ha potuto dedicare soltanto una piccola parte del suo tempo all’arte prediletta, i risultati conseguiti sono tuttavia notevoli per concorde parere di critici quali l’Avv. Pietro Feroldi che già nel 1938 sottolineava in Cattaneo “la capacità di moderare il lirismo dei toni grigi raggiungendo massima consistenza e rara compostezza”. Nel 1944 Ermete Lancini, presentando il catalogo che accompagna la prima personale di Cattaneo, pone l’accento sulla raccolta compostezza espressiva del mondo del pittore e coglie, come centro della sua pittura, quella bellezza palpitante ed in sordina, esaltata dal grigio nostalgico e ferrigno, che ci parla del silenzio delle cose e che tuttavia, a chi sa ascoltare, dice “l’impegno con il quale un uomo resta attaccato alla propria terra, al proprio sentire, alla propria maniera”.
Concetti questi ripresi anche da Elvira Cassa Salvi sul Giornale di Brescia il 16 marzo 1984 quando parla di “pittura magra, esile, quasi tremante dai colori e toni sommessi: un insieme che intenerisce e convince della autenticità d’una vocazione servita con devozione e purezza di sentimenti, esempio di un’affabulazione pittorica condotta con colori macerati, dolenti toni d’animo e amabile compostezza di disegno”.
Un mondo raccolto, meditatamente ricreato, che contrasta, in chi lo ricorda, con il suo carattere aperto, capace di esplodere in battute frequenti al fondo delle quali però v’era non soltanto l’allegra sferzata, ma anche inconfessata amarezza. Velo che ha racchiuso forse una parte della esistenza di Battista Cattaneo, il quale dovette rinunciare a qualcosa di sé per superare necessità contingenti, in tragici anni.
Dopo la sua scomparsa le mostre retrospettive si susseguono: nel 1984 all’UCAI, nel 1998 all’A.A.B.,
nel 2001 a Pompiano, nel 2003 a Palazzo Loggia a Brescia (catalogo generale) e a Villa Carcina.
Le istanze che muovono l’opera di Cattaneo, quella espressiva e quella spirituale, favoriscono le sue scelte stilistiche “dimesse” volte ad esaltare la mite e tenace fedeltà ad un piccolo ordine domestico con una pittura di respiro evanescente ed asciutto, sotto un velo di malinconia pensosa.

Opere

Pubblicazioni

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Brescia, 1934, Catalogo.
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L. FAVERO, La mostra degli undici, , 23 Maggio 1946
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